Skip to content

Alle origini del Placito

    Le cronache narrano che già dai tempi dell’antica Roma esisteva una diversità tra la lingua scritta (quella dei sommi scrittori latini) e il linguaggio comune della plebe, tutta quell’eleganza delle declinazioni poetiche cedeva alla durezza della parlata sguaiata nei fori e nei mercati delle città romane.

    Il continuo afflusso di genti dalle province e le invasioni barbariche non ebbero altro risultato che il definitivo distacco tra la lingua d’origine, ormai segregata nei ruoli ecclesiastici e degli atti ufficiali, e del comune “favellare”.

    In ogni caso era sempre un dialetto latino, non un vero e proprio linguaggio alternativo comune ad una gran parte della popolazione.

    Con i Longobardi ebbe termine quel continuo incedere di scorrerie di tribù nomadi nei territori italiani, l’intera penisola era divisa da solo due gruppi di potere, da una parte i Bizantini dell’Impero Romano d’Oriente ormai grecizzati e dall’altra i Longobardi.

    Questa divisione fece sì che si svilupparono due dialetti di base distinti, con uno sviluppo diverso con radici miste tra la tradizione latina e il linguaggio dei dominatori.

    Un forte impulso verso la nascita della lingua italiana si ebbe ai tempi del re longobardo Grimoaldo, il suo regno era composto da Ducati, Trasimondo, Duca di Capua venne investito del Ducato di Spoleto, Romualdo, suo figlio, governava Benevento mentre nei guai era Lupo, Duca del Friuli, accusato di felloneria.

    Giunse in Italia una nuova tribù guidata dal Duca Alczeco che dalle pianure sarmate del Volga aveva occupato un’area danubiana che assunse la denominazione delle nuove genti sopraggiunte, i Bulgari.

    Alczeco giunse al cospetto di re Grimoaldo chiedendo ospitalità per se e la sua gente, il longobardo pensò, giustamente, di inviarlo a Benevento a dare man forte a Romualdo impegnato in guerra con i bizantini e così avvenne.

    Al Duca Alczeco vennero assegnate città e territori del Ducato di Benevento come Sepino, Boiano ed Isernia ma a patto di far decadere il titolo di Duca e di assumere quello di Gastaldo.

    Questo avvenne all’incirca nel 667, il Ducato di Benevento si arricchì di una nuova nazione, i Bulgari, che per secoli abitarono il Contado di Molise.

    Più di un secolo dopo lo storico Paolo Warnefrido (meglio conosciuto come Paolo Diacono) cronicizza come i Bulgari avessero appreso il linguaggio comune senza aver perso il proprio (De’ gesti de’ longobardi, tomo 5 cap.20), questo da ad intendere che il linguaggio latino, comunemente parlato dai longobardi, si arricchì di nuove deformazioni fonetiche con l’arrivo della nazione Bulgara.

    Per giungere al primo documento ufficiale della lingua italiana bisogna continuare con questa premessa storica, infatti nell’883 un piccolo esercito saraceno pose a ferro e fuoco intere aree del sud per razziare schiavi e oro, vennero distrutti i saccheggiati diversi monasteri e le aree soggette furono abbandonate mentre sul terreno venivano lasciati a marcire i corpi dei malcapitati.

    Per una trentina d’anni in tutta l’area tra il Molise e la Contea di Capua la chiesa cercò di riappropriarsi dei suoi bene, su multi non ebbe problemi ma su altri fu richiesto l’intervento delle autorità.

    Uno di questi, Rodelgrimo d’Acquino, difese ostinatamente l’appropriazione finché non si giunse davanti a un giudice, Arechisi da Capua. Sembra di vederli davanti al tribunale, Rodelgrimo da un lato e dall’altro Pietro, l’avvocato dell’abate di Montecassino Aligerno, e poi i tre testimoni che dovevano attestare l’autenticità della sentenza cioè i monaci Teomondo e Garimberto e il notaio Mari.

    I testimoni dovettero ripetere la stessa frase affinchè sull’atto venisse imposta è la dicitura toti tres quasi ex ore UNO; quasi minerale unocioè “come se i tre avessero una sola voce”, la frase fu: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.“, detta e ripetuta affinché la platea presente potesse capirla.

    Se gli atti ufficiali si continueranno a trascrivere in latino ancora per secoli, l’avvenuta registrazione della frase in volgare è segno che a quel tempo la lingua parlata si era evoluta in quel linguaggio che noi tutti conosciamo come ITALIANO e il latino probabilmente non era più compreso dalla moltitudine.

    Questa trascrizione avvenne a Capua nel 960 in un documento denominato “Placito Capuano” che fa parte di un gruppo di sentenze, placiti appunto, che vanno sotto il nome di “Placiti cassinesi”, gli altri tre vennero redatti a Sessa (“Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette.”), e a Teano (“Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Marie è, et trenta anni la posset parte sancte Marie.”, “Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie.) nel 963.

    La formula è pressochè simile ma negli atti precedenti al Capuano veniva trascritta interamente in latino.

    Poco meno di un secolo dopo si riscontra un altro gradino nell’evoluzione della lingua che passa dagli atti ufficiali anche alle cronache locali, faccio nota di questo con Riccardo di San Germano che riporta del Romito Calabrese con le sue laude “ Benedittu ,laudatu , & santificatu lu Patre.- Benedittu , laudatu, e santificatu lu Fillu: Benedittu, laudato, & santificatu lu Spiritu Santu”.

    Fonti:

    Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell’ istoria generale del regno di Napoli – Tomo XI – Napoli, Gravier 1773

    Storia ecclesiasti

    ca, continuata dal P. Fabre. – Brescia, N. Bettoni 1825-1833 Di Claude Fleury

    / 5
    Grazie per aver votato!

    Lascia un commento

    Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

    Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

    error: Content is protected !!