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Il granato, dee e Madonne

    C’era una volta sulla sponda sinistra del Sele una popolazione che faceva risalire le proprie origini a quelle delle genti greche che per necessità o virtù intrapresero le vie del mare.

    Queste genti, fedeli alle tradizioni e alla religione degli avi, eressero un sacello intorno all’icona di una matrona accomodata sul suo trono e nella sua mano risaltava il globo del melograno, si trattava di Era, sposa da tempo immemore di Zeus, re dell’Olimpo.

    La sua presenza la rileva anche Strabone che, non avendo niente di meglio da fare, raccontava di luoghi, genti e di miti ad essi connessi e il mito di questo santuario lega la città di Pesto alla visita di Giasone durante il folle viaggio con la nave Argo alla ricerca e conquista del vello d’oro.

    Anche Plinio il vecchio rilevava la presenza del santuario ma sulla riva opposta del fiume, le ricerche hanno confermato infine che, come al solito, Plinio erra nell’ubicazione ma le sue affermazioni hanno fatto si che l’individuazione fossa messa in dubbio e resa quindi maggiormente difficoltosa.

    Dunque, a 50 stadi da Pesto (circa 9200 metri) e in prossimità della riva del mare venne eretto nel IV secolo prima dell’era cristiana un Heraion, un santuario dedicato alla dea Era Argiva, Era di Argo, probabilmente costituito inizialmente da un semplice are all’aperto e poi intorno ad esso venne edificato il tempio periptelo ottastilo (un portico con otto colonne frontali per non farla difficile) con accanto un edificio per le riunioni,

    Poco distante un altro edificio era usato dalle fanciulle per tessere il peplo che adornava ogni anno la statua dell’Herva per la processione.

    Non c’è confusione di terminologia, Hera a volte era definita Herva (protettrice) e nel caso del santuario pestano era la protettrice sia dei naviganti (vista l’origine mitologica argonautica) sia perché era la sacra custode dell’unione coniugale e della sua fecondità.

    L’Argiva, come in altre raffigurazioni della dea, era seduta su un trono e con la mano destra reggeva il melograno che era appunto il simbolo della fecondità.

    La figura della dea è alquanto complessa in quanto nel corso della storia greca gli venne attribuito il matrimonio con il re dell’Olimpo e ad esso sottomessa nonostante che in precedenza ella fosse la generatrice della vita (la cultura della Grande Madre) e quindi con un importante ruolo nella struttura sociale.

    L’essere quindi sposa di Zeus pose Hera, e con lei tutte le donne, su di un gradino sociale più basso relegandola al ruolo di contenitore per la generazione attribuita esclusivamente all’uomo che vedeva nella nascita di un maschio il proseguo del suo nome e quindi l’aspettativa dell’immortalità.

    Non volendomi prolungare oltre continuo col dire che il tempio restò in attività fino al 2° secolo (più o meno) quando l’impaludamento dell’area ne rese impraticabile il percorso.

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    La memoria della dea non venne però meno con il sopraggiungere di nuovi modelli religiosi, il suo culto continuò con l’erezione sulla collina più prossima, e quindi con un’aria più salubre, di un nuovo edificio di culto che poi venne assimilato dalla nascente cultura cristiana ad un nuovo ed importante ruolo.

    Ecco quindi la nascita della “Signora del Granato”, il santuario cristiano che i profughi pestani costruirono su uno sperone della collina di Capaccio alla metà del X secolo in seguito alla fuga per l’occupazione saracena dell’area meridionale della città e la distruzione della stessa avvenuta nel corso dell’VIII secolo.

    Nel luogo del Santuario venne fondata quindi dai profughi pestani la città di Caputaquis che poi il “magnanimo” Federico II rase al suolo a seguito della congiura dei baroni nel 1246, i neo-pestani ancora una volta dovettero abbandonare le loro case e si riversarono sul casale di San Pietro a poca distanza costruendo quella che poi divenne l’attuale Capaccio.

    La memoria e la devozione delle genti non vene meno e nel corso degli anni successivi venne ricostruita la chiesa sul sito originario e, dopo continui rimaneggiamenti, oggi la struttura sacra è visibile da tutta la Piana del Sele come un faro che indica la via ai naviganti della fede.

    Santuario della Madonna del Granato (rara fotografia del 1912)

    Oggi è insignito del titolo di “Santuario mariano diocesano” e ha un sagrato rinchiuso a cortile lastricato ma, sia sotto quelle pietre che al di sotto del santuario stesso è conservato un tesoro archeologico accuratamente esaminato durante l’ultimo restauro avvenuto non molti anni fa dell’antica cattedrale preesistente.

    L’attuale Santuario possiede nel suo interno la statua lignea della Madonna, copia di quella distrutta da un incendio nel 1912, con in braccio il bambino sulla sinistra e il melograno (granato appunto) nella destra, qualcuno potrà notare anche un sepolcro vuoto, esso conteneva a suo tempo il corpo dell’Apostolo Matteo che i salernitani traslarono nella Cattedrale della città.

    Le spoglie dell’Apostolo vennero inumate nella vecchia chiesa dopo che erano giunte dalla piana di Casalvelino nel luogo ove c’è la Chiesetta di San Matteo ad duo flumina per testimonianza del miracoloso ritrovamento.

    Si ha testimonianza anche che in una torrida giornata di luglio sui tornanti di Rutino i portatori della salma del Santo sostarono stanchi e assetati, dalla nuda roccia su cui avevano poggiato i resti dell’Apostolo sgorgò una polla zampillante d’acqua purissima.

    Una lapide ne rievoca l’evento. Bella pagina di storia sacra quella del tormentato itinerario di San Matteo prima di approdare alla sua definitiva dimora a protezione della città di Salerno.

    Un’altra meta ordunque è da segnare sul taccuino perché sia il Santuario della Madonna del Granato che la Chiesa di San Matteo e il Duomo di Salerno fanno parte della nostra memoria che mai deve venir meno e mai dovrà essere profanata.

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