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La leggenda degli amanti di Battipaglia

    Ogni castello, ogni rocca, piccola o grande che sia racchiude in se un mistero che si cela tra le antiche pietre che lo costituiscono, la Castelluccia di Battipaglia non è da meno, anzi, dietro il mistero che avvolge i nomi della maggior parte degli inquilini che l’hanno abitato uno in particolare ha fatto si che aleggiasse su di esso una coltre di suspance.

    Quello che vi racconterò ora l’ho trovato su un libricino manoscritto databile alla prima metà del 1600 che un appassionato collezionista custodisce con estrema gelosia, me lo mostrò dopo che notai tra i suoi volumi una rara edizione di “La gelosia del Sole” scritta da un poeta sicignanese, il collezionista, che non era della nostra terra, felice di aver conosciuto qualcuno che conosceva quel poeta mi mostrò questo libricino con la promessa di non rivelare mai il suo nome.

    Mi è bastato leggerlo una volta (con le mani guantate per non intaccare la carta) per estrapolare la seguente storia, non so se sia vera ma di sicuro affascinante.

    Diversi secoli fa un nobile svevo di cui non si conosce il nome era il residente della Castelluccia che manteneva per conto della Curia Salernitana con una guarnigione di armati a protezione dell’area.

    Egli aveva preso in moglie una donna stupenda, anch’essa di nobile casata che spesso rimaneva sola tra le fredde mura del maniero.

    Amava molto cavalcare e le stalle contenevano stupendi animali da sella che volentieri montava.

    Alla cura dei cavalli era stato destinato un giovane del borgo che dalle fattezze del corpo sembrava discendere dalla stirpe normanna che aveva abitato il luogo in precedenza.

    La gentilezza dei modi, l’accondiscendenza in quanto vassallo del signore e magari anche lo splendore della castellana facevano si che gli occhi del giovane erano brillanti come soli.

    La donna s’avvide della presenza discreta dello stalliere che segretamente l’amava e un po compiaciuta e un po vogliosa di quel corpo aitante e fremente fece si che il ragazzo diventò il suo amante.

    La coppia era solita consumare l’amplesso adulterino nelle stalle profumate di fieno del castello silariano e gli incontri si protrassero per lungo tempo finchè un giorno una cortigiana dalla provata fedeltà al suo signore di ritorno dalla fiera del borgo dove aveva acquistato delle stoffe udì dei gemiti provenire dai locali del maneggio. Incuriosita fece per entrare di soppiatto e, con non poco stupore, scorse avvinghiati nei filamenti di paglia la sua signora con lo stalliere in un chiaro atteggiamento amoroso.

    Meraviglia e rabbia furono i primi sentimenti che attraversarono la cortigiana segretamente innamorata del giovane ma si allontanò dal luogo senza essere scorta dalla coppia.

    Quando il signore rientrò tra le mura del castello la fedele cortigiana riferì l’accaduto senza tralasciare alcun particolare mentre l’ira montava nella mente del nobile, al termine del racconto fece chiamare dapprima la fedigrafa consorte e immediatamente dopo lo stalliere.

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    Nessuna ragione venne accettata, nessuna motivazione o discolpa fu presa in considerazione, la lama armata del nobile infierì molte volte sul corpo del malcapitato giovane e il sangue scorse sul pavimento del salone principale e il tutto avvenne davanti agli occhi colmi di lacrime della moglie.

    Per giorni la donna si rinchiuse nella sua camera e ormai non c’erano più lacrime che potessero scendere dai suoi occhi, la disperazione e la vergogna presero il sopravvento a tal punto ch’essa, ormai distrutta dal dolore scelse un albero nel giardino interno del castello per sospendere una corda con la quale cinse il suo lungo collo e si lasciò pendere fino a che la morte non la colse.

    Da allora ogni donna del borgo che abbia macchiato la sua coscienza di adulterio, evitava di alzare gli occhi verso la Castelluccia perchè sapeva che avrebbe incrociato lo sguardo dello spirito della castellana affacciato alla loggia del maniero.

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