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Le lacrime d’oro del Cilento

    Quel fazzoletto di telo posto al di sopra del mastello che trasuda gocce di nettare divino è un tributo agli dei della terra che uniti a quelli delle arie e delle acque hanno reso generose le pendici occidentali dell’Alburno.

    Scende pian piano, goccia dopo goccia, lacrima dopo lacrima, la mostatura del semplice vinello moscato ed è solo così che egli lo assume, un nome forte, ricco di sapienza antica, ricco della pazienza del contadino che lo prepara per il giorno della festa, per il matrimonio della figlia, per la visita gradita di un amico lontano, il suo nome è lambiccato.

    Geograficamente siamo nella zona tra i Monti Alburni e il Cilento interno, nell’aspra provincia di Salerno a sud della Piana del Sele, la cittadina centrale di questo territorio è Castel San Lorenzo (da ragazzi la scimmiottavamo con “Château de San Laurence” per assonarlo alle zone di produzioni dei grandi vini francesi) patria della produzione del Barbera Doc, il paesaggio è costellato da colline ove dolci ove aspre sulle quali da secoli l’uomo trae l’uva per trasformarla in nettare rosso e corposo.

    Sono due i vitigni usati sul territorio, il barbera e il moscato, un rosso e un bianco, gocce di sangue e lacrime d’oro ed è proprio con le lacrime che la sapienza antica ha creato quella che i magnogreci chiamavano “ambrosia” per accostarla alla bevanda degli dei.

    Il procedimento di trasformazione è semplice ma allo stesso tempo laborioso e per sommi capi tento di descrivervelo.

    Alla base vi è un telo di cotone a trama fine, ai lega agli angoli e lo si tiene sollevato al di sopra di un mastello (una volta fatto di legno), vi si versa dentro il mosto dell’uva moscata posta a passire in cassettine di legno, per tre volte lo stesso mosto si versa nel telo, per tre volte si raccoglie nel mastello e per ogni passaggio si affatica ad attraversare il cencio e se non basta anche un quarto passaggio finchè non si vedono cadere le lacrime affaticate.

    Lo si poneva all’interno di bottiglie di vetro scuro e spesso nelle notti di luna crescente e lo si poneva a riposare e maturare nelle buie cantine, ben discostato dall’altro perchè si rischiava di far scoppiare tutte le bottiglie.

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    Era poi bello stapparlo nei giorni di festa per accompagnare i dolci della tradizione, taralli con naspro, morzelletti, e altri, tutti rigorosamente secchi perchè la crema non era di casa nel Cilento.

    Questa è la tradizionale procedura per la produzione del “lambiccato”, oggi le cantine hanno sviluppato un procedimento più veloce ma sempre legato alla tradizione per mantenere il legame col territorio, e come allora oggi è possibile far scorrere il nettare sulla lingua e apprezzarne le qualità

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